Sapete che…
Curiosità dalla cucina Piemontese
Degusté Dream Food 2019, in collaborazione con Sapere di Gusto Magazine Online, LIBRICETTE.eu partner della manifestazione e il food blog Slelly – The Dark Side of Kitchen che ha messo a disposizione i testi che trovate di seguito, offre al pubblico dell’evento e del web approfondimenti culturali legati alla cucina piemontese.
Degusté Dream Food è l’evento dedicato ai Maestri del Gusto di Torino e provincia che ruota attorno al Menu Degusté, interamente realizzato con i prodotti dei Maestri stessi e finalizzato a esaltare e a promuovere la conoscenza delle eccellenze enogastronomiche del territorio torinese.
Gustare è diverso da mangiare ed è un atto che condensa corpo, mente ed emozioni e non può prescindere dal conoscere ciò che sia ha nel piatto, chi lo ha prodotto e la storia che concorre a raccontare, legata a persone e territori.
Mettetevi comodi e godetevi le storie che stiamo per raccontarvi, collegate ad alcune delle prelibatezze che compongono il Menu Degusté o che potrete trovare nel mercatino dei produttori.
LA ROBIOLA D’ALBA
La robiola d’Alba è esponente di una tipologia di formaggi la cui produzione, in Piemonte, riguarda la gran parte dei territori collinari e affonda le proprie radici nei secoli passati, come testimoniano le numerose tracce documentali. Tra queste è possibile reperire un passo de Relazione dello stato presente del Piemonte (1635) di Monsignor Della Chiesa che recita: «[…] che noi rubiole diciamo, i quali fra i migliori d’Italia furono da Plinio annoverati.»
La robiola d’Alba, formaggio PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) è prodotta in diversi territori delle province di Asti, Cuneo, Alessandria, fino a Savona, ma è il centro langarolo che gli ha dato il nome a spiccare in tal senso.
La robiola d’Alba è un formaggio di latte vaccino intero la cui pezzatura si attesta tra i 300 e i 400 grammi. Nella versione più fresca ha forma cilindrica, scalzo arrotondato, è priva di crosta, ha colore bianco, pasta morbida, gessosa, piuttosto compatta e priva di occhiature. Il sapore è molto fresco, latteo e vira verso piacevoli note acidule che si attenuano se si prolunga la stagionatura che conferisce a questo formaggio un colore più intenso e giallognolo.
Relativamente alla metodologia di produzione ci informa il sito Piemonte Agri Qualità della Regione Piemonte: «Si impiega latte vaccino intero crudo o pastorizzato. Il latte deve aver avviato l’acidificazione prima dell’aggiunta del caglio. La temperatura di coagulazione è di circa 30-37 °C per una durata media di un’ora, in alcuni casi anche sino a due ore. La rottura della cagliata viene fatta in un tempo unico (come in passato), oppure in fasi di taglio e soste sino a ottenere un granulo di cagliata di dimensione nocciola. Estratta la cagliata la si deposita direttamente negli stampi, segue un periodo di stufatura a temperatura ambiente. Questa fase prevede alcuni periodici rivoltamenti. Normalmente il giorno dopo alla produzione si effettua la salatura, che tradizionalmente avveniva a secco per la durata di circa 12 ore per faccia. La stagionatura è molto breve di 3-4 giorni, a temperatura tra 5 e 8 °C. In caso di durata maggiore (oggigiorno poco diffusa) la crosta acquista una leggera colorazione paglierina, il sapore acidulo si affievolisce e il sapore diventa più aromatico.»
In commercio è possibile reperire la robiola d’Alba al naturale oppure arricchita e aromatizzata con tartufo, rucola o peperoncino.
La robiola d’Alba si consuma così come è, condita con olio, sale, pepe e, se gradito, peperoncino, oppure tagliata a dadini nelle insalate, o conservata sottolio.
IL SEIRASS
Il seirass è spesso considerato la ricotta piemontese, anche se la tecnica produttiva lo avvicina ai formaggi poiché al siero si aggiungono latte e caglio.
Il seirass è a base di latte di pecora e vaccino. Ha una consistenza morbida e cremosa e una pasta molto fine e meno granulosa della ricotta “normale”. In bocca si rivela morbidissimo e vellutato.
Il seirass tradizionalmente è confezionato in coni di lino. L’originale pezzatura oscilla tra 1 e 1,5 kg, ma oggi è reperibile in pezzature più piccole che meglio si adattano alle esigenze dei consumatori.
Prodotto in molte zone del Piemonte, in particolare nelle Valli Germanasca, Pellice e Chisone, secondo alcune fonti, il seirass ha avuto origine presso le comunità valdesi della zona di Pinerolo.
Prima del dopoguerra e del miglioramento delle condizioni economiche di molte famiglie, la produzione di seirass era ridotta rispetto ad oggi e spesso era realizzato con il solo siero ricavato dai processi produttivi di altri formaggi.
Il seirass, che è un prodotto P.A.T. (Prodotti Agroalimentari Tradizionali), ha un sapore delicato ed elegante e si presta a moltissimi utilizzi, sia in piatti salati (ad esempio come base per il ripieno di paste fresche), sia in preparazioni dolci alle quali dona una morbida carezza di latte.
Infine, per capire meglio cosa sia il seirass, affidiamoci a Gipo Farassino che nella canzone ‘L Tolè ‘D Civass (letteralmente Il Lattoniere di Chivasso), raccontava:
«L’é la stòria dolorosa
d’en tolé ch’a stà a Civass
che ‘n bel dì con la morosa
l’é rivà a Pòrta Palass.
Adalberto Romolasso
professione lattoniere
l’é rivà a Porta Palasso
con la sua Belvedere;
stravaccata sul sedile
lui ci aveva la morosa
figlia di un grand’impresario edile
si chiamava Mariarosa.
Ah! La stòria dolorosa
d’en tolé ch’a stà a Civass
che ‘n bel dì con la morosa
l’è rivà a Pòrta Palass.
Adalberto Romolasso
lui voleva comperare
mezzo etto di seirasso
così, tanto per gustare;
il seirasso è quella cosa
che assomiglia un po’ ai tomini
c’è chi ci fa senso, chi va pazzo
e chi lo mangia coi crostini.»
LA CARNE DI RAZZA PIEMONTESE
Bovini di Razza Piemontese: bastano queste parole per introdurci nell’eccellenza. Una razza bovina anche definita Fassone o della Coscia, che dona una carne straordinaria.
La carne di Razza Piemontese racconta una storia antica: dai 25 ai 30 mila anni fa, mandrie di zebù pakistani si spostarono ai piedi delle Alpi, dando origine alla razza attraverso la fusione con bovini autoctoni, diffusi nell’area geografica oggi corrispondente al Piemonte.
Gli esemplari attualmente allevati discendono da un capo nato nel 1886 a Guarene d’Alba a seguito di una mutazione genetica spontanea. Il vitello, che divenne toro da riproduzione, si distingueva per la massa muscolare delle natiche e della coscia particolarmente sviluppata, ipertrofica in termini tecnici, che portò all’utilizzo delle definizioni doppia groppa e vitello della coscia.
Inizialmente la Razza Piemontese era una triplice risorsa: impiegata come forza lavoro, era apprezzata anche per il suo latte e per la sua carne, ma con il tempo fu peculiarmente destinata alla macellazione.
La Razza Piemontese non è certo adatta all’allevamento intensivo. I capi attualmente allevati sono un numero limitato, soprattutto se paragonato a quello che riguarda la produzione industriale di carne.
Il mantello del vitello di Razza Piemontese è definito fromentino (del colore del grano maturo), quello della femmina adulta è bianco, mentre il toro è grigio e caratterizzato dalla testa più scura.
Gli allevatori della Razza Piemontese, Presidio Slow Food, sono riuniti nell’Associazione La Granda, nata per tutelarne la purezza e le metodologie di allevamento che prevedono di nutrire gli animali con alimenti quali mais, orzo, crusca, fave e fieno, escludendo del tutto insilati, integratori o altri prodotti, specie se geneticamente modificati. I vitelli di Razza Piemontese crescono secondo i tempi dettati dalla natura e la carne che arriva nei negozi autorizzati ad utilizzare il marchio La Granda è riguardata da un’etichetta dettagliata che riporta i dati dell’allevatore e dell’animale unitamente alla data di macellazione.
Ciò che si ottiene dalla Razza Piemontese è un prodotto straordinario e unico nel suo genere. La carne, pur essendo particolarmente magra, è saporita, intensa, tanto che, se consumata cruda, si sposa perfettamente a condimenti semplici che non servono ad arricchirla, ma la “accompagnano”.
I piatti tradizionali che vedono la carne di Razza Piemontese (vitello, castrato, bue o vacca) come protagonista sono molti. Sono alcuni esempi la Carne all’Albese, il carpaccio che per i piemontesi è (e resterà sempre) L’ALBESE o L’ALBÈISA in dialetto, condita, secondo i gusti, con olio, sale, pepe, limone e formaggio Grana in scaglie, oppure la carne cruda battuta rigorosamente al coltello – guai a tritarla con il tritacarne!!! – , in stagione accompagnata con il tartufo bianco d’Alba, il Gran Bollito Misto con le sue inseparabili salse (bagnetto verde, bagnetto rosso, salsa d’avije a base di noci e miele)…
Insomma, di modi per assaporare questa indiscussa eccellenza sono tanti e regalano, ogni volta, un’esperienza semplicemente esaltante.
IL TOMINO
Il tomino piemontese è semplicemente buonissimo. Semplicemente perché non ha bisogno di troppi orpelli o accompagnamenti: è straordinario così come è oppure gustato con preparazioni non elaborate che creano un gustosissimo tête-à-tête culinario.
Il tomino piemontese è un formaggio grasso o semi grasso, a pasta molle, realizzato a partire da latte di vacca o latte misto, ottenuto unendo le due mungiture della giornata. È reperibile fresco, asciutto o stagionato. Il tomino stagionato lo si può anche trovare conservato sottolio.
Nella versione fresca (2 – 3 giorni di maturazione) il tomino piemontese è privo di crosta, la pasta è bianca, umida e friabile. Il sapore è spiccatamente latteo e piacevolmente acidulo. La stagionatura, che può prolungarsi per circa un mese, implica lo sviluppo di una crosta morbida e chiara e di una pasta fondente giallo paglierino il cui sapore di latte (più dolce e meno acido rispetto al tomino fresco), può virare verso note di fungo.
Il tomino, fresco o stagionato, può essere utilizzato come formaggio da tavola o impiegato in cucina. Nella versione fresca è protagonista di un piatto celeberrimo, i tomini al verde, ovvero accompagnati dal Bagnet Vert (Bagnetto Verde).
In origine il tomino piemontese era preparato dalle massaie con una metodologia molto semplice.
Il processo di produzione è rimasto poco complesso, ma può variare in base alla zona di origine. In linea generale si riscalda il latte crudo tra i 35°C e i 40°C e si aggiunge il caglio. Successivamente la cagliata è rotta in due tempi, coagulata, poi tagliata. Dopo la scolatura, che avviene in apposite forme, il tomino piemontese è prima salato “in pasta” poi “a secco”.
Il sito langhe.net ci informa che il nome Tomino, che discende da Toma, potrebbe derivare dalle parole francesi Tomme o Tome oppure dalla parola piemontese Tuma che indica la precipitazione della caseina. La produzione di questa eccellenza per troppo tempo sottovalutata, si concentra in particolare nelle province di Torino e Cuneo: alcune varietà sono distintive di paesi o aree ben precise.
L’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.) piemontesi, riporta ben 10 tipologie di tomino piemontese:
Tomino canavesano asciutto
Tomino canavesano fresco
Tomino del bot
Tomino delle valli saluzzesi
Tomino del Talucco
Tomino di Rivalta
Tomino di S. Giacomo di Boves
Tomino di Saronsella (Chivassotto)
Tomino di Sordevolo
Toumin dal mel
I TORCETTI AL BURRO
I Torcetti sono un prodotto da forno dolce, tipico del Piemonte. Profumati, croccanti e friabili, grazie alla presenza del burro e dello zucchero, nella loro semplicità sanno incantare.
I Torcetti al burro piemontesi sono riguardati da un mistero irrisolvibile: quale è la ricetta originale? Ogni famiglia, ogni artigiano ha la sua ricetta che, a ragione, custodisce gelosamente, contribuendo a perpetrare il mito.
Le tipicità di un territorio sono un tesoro inestimabile e i segreti che le riguardano devono essere custoditi. Noi appassionati del buon cibo che racconta storie, abbiamo a disposizione i nostri sensi per apprezzare, cercare di comprendere e, eventualmente, replicare, senza mai prescindere dal rispetto per preparazioni tanto importanti dal punto di vista culturale.
Tornando ai torcetti al burro piemontesi, dalla zona di Biella a Torino, fino a Lanzo e ad Agliè, e, più in generale, nel canavese, essi viaggiano in lungo e in largo portando con sé mistero e straordinaria bontà.
In linea di massima, per fare alcune distinzioni, i Torcetti biellesi sono più grossi, chiari e ricchi di burro, mentre quelli di Lanzo sono più sottili, scuri e tipicizzati da una glassatura in superficie. Quelli di Agliè, invece, sono caratterizzati dall’essere chiari nella parte superiore e scuri e caramellati inferiormente. Distinzioni che diventano ancora più capillari se si provano i Torcetti preparati da artigiani diversi nello stesso luogo. Insomma, dare regole ai Torcetti al burro piemontesi, imbrigliarli in un disciplinare fai-da-te è impossibile e a me piace così: i Torcetti al burro piemontesi sono buoni anche per il fatto di essere un po’ “sfuggenti”…
Detto ciò, è legittimo chiedersi almeno dove siano nati, ma anche in questo caso ci si scontra con diverse scuole di pensiero. Secondo alcuni sarebbero nati nel biellese, secondo altri a Lanzo, ma c’è anche chi dice che sia Agliè ad aver dato in Natali ai Torcetti al burro piemontesi. In particolare, Sandro Doglio, nel suo Dizionario di Gastronomia del Piemonte, identifica Lanzo come città che ha dato il via alla tradizione di sfornare Torcetti: «Sembra il luogo di origine sia la zona di Lanzo (TO), dove del resto si dice che siano nati anche i grissini, che in effetti, con la differenza che non sono dolci, hanno più o meno la stessa tecnica di preparazione e cottura.»
I Torcetti, anticamente definiti Torchietti per il fatto di essere “attorcigliati”, nacquero nel XVIII secolo. In origine erano riservati ai bambini nei giorni in cui le famiglie si riunivano presso i forni comuni per cuocere il pane, alimento dal quale i Torcetti al burro piemontesi hanno avuto origine. Con la pasta del pane si realizzavano cilindri saldati alle estremità. Cosparsi di prezioso zucchero o glassati con il miele, erano poi sistemati in prossimità della bocca dei forni mentre questi si riscaldavano.Con il tempo il consumo dei torcetti si diffuse: da essere prerogativa infantile, iniziarono ad essere serviti alla fine dei pasti in occasione delle celebrazioni, a volte accompagnati dalla Fioca (in dialetto “neve”, sta ad indicare la panna montata). All’impasto fu poi aggiunto il burro che li rese più ricchi e friabili e le dimensioni si ridussero di circa la metà. I Torcetti al burro piemontesi, a partire dal XIX secolo, divennero un vero e proprio prodotto di pasticceria secca.
I Torcetti al burro piemontesi sono citati nel testo Confetturiere Piemontese del 1790 e nel Trattato di Cucina e Pasticceria Moderna scritto nel 1854 da Giovanni Vialardi, aiuto capocuoco alla corte di Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II. Nel testo, Vailardi parla di ben tre ricette diverse per realizzare queste specialità.
E oggi, come consumarli? Di scuse e modi ne troverete molte. Così come sono, per rendere speciale qualsiasi momento delle vostre giornate oppure assieme allo zabaione o a un bicchiere di moscato passito…scegliete voi: comunque deciderete di mangiarli, li amerete.
PASTE DI MELIGA
Ah…le Paste di Meliga o Paste ‘d Melia (in piemontese “melia” significa mais). Chi le prova non può non amarle. Friabili, straordinariamente profumate di burro, ricche, golose, portano nel cuore la potenza della tradizione che si fa sentire ad ogni morso.
Da biscotto fatto in casa, con il tempo le Paste di Meliga del Monregalese sono diventate un prodotto dell’industria dolciaria. Il Consorzio Paste di Meliga del Monregalese è nato con lo scopo di tutelare questo biscotto prezioso, oggi Presidio Slow Food, soprattutto alla luce del fatto che la produzione industriale non è in grado di eguagliare la versione artigianale.
Collocare la nascita della Paste di Meliga in un periodo preciso non è cosa facile. È lo stesso Consorzio a informarci riguardo a questa incertezza: «Non potendo collocare la loro nascita in un periodo esatto, noi amiamo dire che le Paste di Meliga -…hanno una ricetta antica che si perde nel tempo…-»
Nate tra Vicoforte e Pamparato (dove prendono anche il nome di Biscotti di Pamparato), oggi le Paste di Meliga sono reperibili in molte altre aree del Piemonte. Secondo alcune fonti sarebbero state create a seguito di un raccolto particolarmente povero che fece aumentare vertiginosamente i prezzi del frumento e limitò la disponibilità del “fior di farina”. Fare di necessità virtù, si sa, è una delle specialità degli artigiani che iniziarono così a “tagliare” la farina di frumento con quella di mais nella versione più fine, non adatta alla realizzazione della polenta e destinata alla produzione di dolci.
Le Paste di Meliga, in origine, erano biscotti “fatti in casa”, preparati subito dopo la cottura del pane per sfruttare il calore del forno. Essendo un prodotto casereccio, erano realizzate in diverse forme. Oggi la più diffusa è tondeggiante ed è caratterizzata da una striatura conferita dalla siringa per dolci o dalla sacca da pasticciere dotata di bocchetta stellata.
In Piemonte si coltivano antiche varietà di mais dalle qualità eccellenti che hanno una resa inferiore a quella del mais coltivato su larga scala, ma vantano caratteristiche ineguagliabili.
Il mais è molto importante per i piemontesi, tanto che hanno coniato un raffinato modo di mandare a quel paese che si traduce in Va a spané ‘d melia, che può essere tradotto in “va a togliere le foglie alle pannocchie.”
Ancora con riferimento al Consorzio Paste di Meliga del Monregalese, apprendiamo che queste specialità sono realizzate con mais della pregiata varietà “ottofile”, macinato a pietra, descritto in questo modo nel Disciplinare dell’Associazione degli Antichi Mais Piemontesi: «Ottofile: spiga cilindrica di otto ranghi, granella grossa, tutolo bianco, colore variabile dal bianco, al giallo, al rosso».
Gli altri ingredienti delle Paste di Meliga sono farina di frumento 00, burro, uova fresche. Alcuni aggiungono aromi naturali (vaniglia e/o scorza di limone) e lievito per dolci.
Lo stesso disciplinare indica che le Paste di Meliga devono essere prodotte rigorosamente con farine di mais antichi macinati a pietra in proporzione non inferiore al 75% di farina di mais e 25% di farina 00, ma, si sa, le ricette tradizionali sono protagoniste di varianti che ogni famiglia e ogni artigiano apporta, sulla base dell’esperienza e di quel meraviglioso processo che è il tramandare una ricetta di generazione in generazione.
Come si gustano le Paste di Meliga del Monregalese? Tradizione antica vuole che le si assapori con un bicchiere di vino rosso anche strutturato, ma, più di recente, sono diventate fedeli compagne di Moscato, Moscato Passito e zabaione.
IL BONET
Il Bonet è un dolce intramontabile, rappresentativo della gastronomia piemontese.
Il suo nome, tradotto dalla forma dialettale, significa “cappello“. L’origine di ciò pare derivare dal fatto che, in quanto dessert servito alla fine del pasto, il bonet facesse da cappello al menu oppure perché il cappello è l’ultimo indumento indossato prima di uscire di casa. Altre scuole di pensiero indicano derivi dalla forma dello stampo originariamente utilizzato per la sua realizzazione che aveva la forma di un copricapo.
Il Bonet alla Monferrina, che appartiene alla famiglia dei dolci al cucchiaio come i budini ai quali è affine per preparazione e cottura, da secoli è presente nella lista delle specialità regionali (le tracce più antiche risalgono al XIII secolo).
Come molti piatti tipici, il Bonet alla Monferrina si declina in differenti versioni, a seconda della zona di produzione.
Esistono ricette del Bonet alla Monferrina che prevedono l’utilizzo degli amaretti secchi assieme alle nocciole o di uno solo di questi elementi. Nella lista degli ingredienti è possibile trovare anche il caffè, il rum o il marsala secco.
Il cacao è protagonista assoluto del Bonet alla Monferrina per come è conosciuto oggi, ma la versione antecedente alla scoperta del Nuovo Continente, dal quale l’Europa ha importato la pianta cara al dio Quetzalcoatl, ovvero il Bonet alla Monferrina per antonomasia, era una sorta di budino bianco nel quale si utilizzavano amaretti secchi.
Vi diamo appuntamento ai prossimi articoli.
La redazione di Sapere di Gusto Magazine Online